Per fronteggiare gli eccessi dell’ipotassi, già nel 2001 la “Guida alla redazione dei testi normativi” rivolgeva a tutte le autorità dotate di potere normativo una raccomandazione che poteva essere estesa a tutti i testi giuridici: “piuttosto che ricorrere ad incisi involuti, è preferibile interrompere il periodo con il punto e ricominciare la frase, in modo che ciascuna disposizione abbia un contenuto preciso”.

Si cominciava, cioè, ad affrontare il dogma della brevità – in termini forse più nobili e appropriati, il “principio di sinteticità” – invitando anzitutto i giudici a redigere motivazioni “concise”, “succinte”, “sommarie”, e via dicendo, e imponendo a tutti gli operatori una sinteticità individuata anche ‘quantitativamente’.

Tuttavia, la soluzione che ancora oggi si cerca di fornire al problema è assolutamente effimera. Infatti, qualunque operatore pratico della giustizia, per quanto devoto al “principio di sinteticità”, sa bene che, se vi sono casi in cui dieci pagine sono anche troppe, ve ne sono altri in cui trenta sono troppo poche.

Da un punto di vista linguistico e logico-argomentativo, il contrario di ‘sintetico’ non è ‘prolisso’ ma ‘analitico’. E allora, poiché un discorso analitico può essere chiaro mentre un discorso sintetico può comunque essere oscuro, la ‘sinteticità’ può non essere affatto sufficiente per una buona argomentazione. Insomma: non è detto che un testo, per essere sintetico, debba anche essere breve.

Dunque, il problema della sintesi non si può certo risolvere “dando i numeri”. Questo perché, molto semplicemente, la sinteticità è un requisito di contenuto cioè qualitativo, e non può dunque essere gestito in termini di dimensione del testo, che è elemento quantitativo.

Così, alla fine, il principio di ‘sinteticità’ assume connotati di tale vaghezza (e banalità), da naufragare.


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